Ma che nome è Kintsukuroi?!

Pensate non me lo sia chiesto? Che non mi sia immaginata i vaffa di ritorno? Sì, l’ho fatto. Ho immaginato gli occhi stralunati alla prima lettura.

Volevo chiamarlo Kintsugi, questa è la storia vera.

Poi nel giorno in cui la nostra grafica, Alessandra Geatti, iniziava a rifinire il lavoro sulla copertina è arrivato un messaggio che diceva che un emergente era uscito da poco con l’album d’esordio intitolato Kintsugi. Credo di aver detto “esco a camminare” e nient’altro.

Quando pensi al nome di un progetto -un po’ come un figlio- fai fatica a ritrattarlo. È come se fin da bambine/i aveste voluto chiamare Matteo il vostro futuro bambino e poi fosse nato in questi anni (la maggior parte dei Matteo mi perdoneranno l’ironia).

Poi mi sono ricordata che erano due i nomi con cui si descriveva quell’arte giapponese che rappresentava al meglio il mio lavoro: kintsugi e kintsukuroi. Qualche sillaba in più e un’identica estraneità linguistica. Tanto valeva osare.

Così mi son detta “adesso voglio vedere chi chiama un album Kintsukuroi!” e Alessandra non ci ha pensato un attimo a far comparire il titolo nella sua migliore font. Bello.

Sì, bello. Ci piaceva di più! Era fatta.

E’ andata così.

(Un po’ come scoprire che anche Mattia è un bel nome, in fondo. Anzi, a quel figlio sta pure meglio)!